LA RIFORMA COSTITUZIONALE, LE MIE RAGIONI DEL SI

Ho appena finito di leggere il penultimo libro di Gustavo Zagrebelsky, famoso costituzionalista spudoratamente a favore del “No“. L’ho fatto perchè penso che prima di tutto quando si discute di qualcosa, ancora prima di informarsi, si debba ascoltare in silenzio l’opinione contraria. Sostanzialmente per capire la propria. Se ci sentiremo in parte d’accordo con il nostro interlocutore vorrà dire che tutto sommato non siamo così distanti da lui, se non riusciamo ad ascoltarlo e ogni mezzo secondo ci verrebbe da interromperlo vuol dire che la pensiamo in maniera diversa. Preferisco partire dalla base in ogni ragionamento che faccio, soprattutto se poi devo spiegarlo. In poche parole, se non sono sicuro io di quello che sto dicendo o di quello che penso, sarà difficile che riesca a dimostrarlo agli altri. Ho letto anche, in parte lo ammetto, tutto sarebbe stato da suicidio, il testo della riforma. Ho letto parecchie interviste, partecipato a infiniti dibattiti, conferenze, ascoltato interventi, interrogato i libri su cosa gli altri, non italiani, ne pensano del dibattito prima ancora di cosa voterebbero su quello che da aprile a questa parte è al centro di ogni discorso politico. Cosa che in realtà è un male, perchè se parli solo di una cosa, vuol dire che non hai altro di cui parlare. Mentre invece, purtroppo, di cose da sistemare ce ne sono molte di più. Dico la mia dopo aver sviluppato una tesi di laurea sui sistemi elettorali (diciamo che ho colto la palla al balzo come si dice), dico la mia dopo che ho ascoltato, dopo che sono sicuro di quello che penso. Qui sotto esprimo le mie ragioni del al referendum costituzionale con, in coda, un breve ragionamento sulla nuova legge elettorale “Italicum”.

Prefazione

 Affrontare tutta la riforma, in ogni suo aspetto, è impossibile. E comunque non è il mio scopo. Premetto dunque che mi concentrerò sulla più grande modifica del testo ovvero quella sul Senato della Repubblica. Si parla da decenni della particolarità, anzi della specificità italiana circa la nostra struttura istituzionale. Il bicameralismo paritario (detto rozzamente perfetto) non viene introdotto nella Repubblica Italiana, bensì copiato (come gran parte del resto delle istituzioni) dal precedente Statuto Albertino. Ora, dovremmo fermarci immediatamente e affrontare storicamente le tappe che hanno portato al Regno d’Italia, ma per brevità basti ricordare che nel Regno di Sardegna la lingua parlata era il francese, dunque le leggi venivano scritte in francese; lo Statuto Albertino subisce un’evidente influenza dalla Costituzione francese in quel periodo vigente. La peggiore della storia dei nostri vicini d’oltralpi. La nostra carta costituzionale quindi non ha libero movimento, ma è vincolata ai precedenti fatti storici e ai più recenti fatti politici che cancellarono la democrazia nel nostro paese durante la seconda guerra mondiale. Il testo che ne esce è un compromesso.Quindi, non solo dal punto di vista storico l’Italia è uno degli ultimi paesi a trovare la coesione, quanto meno territoriale, ma lo scenario politico che dove governare il post-seconda guerra mondiale è a dir poco debole, frammentato, incerto e in generale poco fiduciato dalla popolazione che esce praticamente da una guerra civile devastante che ha allontanato gli italiani dal loro stesso stato. Dico questo non perchè voglia fare l’Aberto Angela del momento, ma perchè le premesse sono importanti. Fondamentali a volte, e spesso ce ne si dimentica, parlando dell’attuale senza capire il perchè di alcune cose. Superata la costituente, in Italia, lo sapete meglio di me, abbiamo avuto un solo unico partito che governò per 40anni senza possibilità di avere un’alternativa politica. Nei casi in cui questa alternativa sembrò essere presente, il sistema istituzionale non gli permise l’accesso (mi riferisco soprattutto alla “nascita” delle regioni posticipata fino al ’70 nell’ordine di non permetter al PCI di avere alcun ruolo politico in Italia). Superata anche la cosiddetta Prima Repubblica, i suoi scandali, i suoi politici, e soprattutto i suoi partiti e la sua legge elettorale, arriviamo ai giorni nostri. Si dice che non ci sia fine al peggio. Beh, la politica italiana ne è un ottimo esempio. L’arena politica si è divisa non su un cleavage, non sulle classiche divisioni partitiche che eravamo abituati a vedere, ma sull’appoggio/contrapposizione ad un singolo soggetto. Un uomo a dirla tutta. Silvio Berlusconi. L’inesistenza di un’opposizione che garantisse accountability interistituzionale (quella elettorale ce la sognavamo con il matterellum soprattutto, e col porcellum in parte) ha fatto sprofondare partecipazione, fiducia e rappresentanza dei partiti ma non solo, di tutti i soggetti presenti nell’arena politica in grado di influenzare/modificare l’agenda politica nazionale. Ci è voluto un comico per sbrogliare una situazione drammatica.

Nel merito

Parto come sempre dalla base. Il 4 dicembre saremo chiamati a votare per decidere se la riforma costituzionale approvata dal Parlamento entrerà effettivamente in vigore. Il referendum previsto a fine procedimento di revisione costituzionale non prevede un quorum. In questo caso, chi si presenterà alle urne avrà voce in capitolo, chi non lo farà lascera letteralmente decidere agli altri. Non è una decisione del Governo o di Renzi, è il normale processo legislativo del caso. Ora, da che mondo e mondo, questo crediateci o no svantaggia il fronte del Sì. I referendum sono strumenti di democrazia diretta utilizzati dalla cittadinanza e dalle forze politiche per dimostrare il loro dissenso alla linea politica della maggioranza, vi immaginate un gruppo di cittadini che raccoglie le firme per indire un referendum a favore di una legge? Non avrebbe alcun senso, chi non è d’accordo si mobiltà, chi non lo fa vuol dire che o non gli interessa o non trova alcun motivo per essere contrario. Dunque la storiella che vi hanno raccontato che il Governo, Renzi, la Boschi, il Pd e gli alieni hanno pensato alla data del 4 dicembre per non far andare a votare la gente sarebbe un ipotesi masochista per loro stessi. Comunque, procediamo. Tra le tante modifiche inserite nel testo di revisione costituzionale, che prevede la modifica di 47 articoli costituzionali, ve ne sono alcuni che non molto spesso si citano. Tra cui: l’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Cnel; la revisione del rapporto stato-regioni, con un evidente eccentramento delle politiche; una modifica tecnica all’elezione del Presidente della Repubblica, senza stravolgere il processo, anzi semmai rendendolo ancora più democratico; una modifica sul numero di firme necessarie per indire referendum popolari; la modifica, necessaria nel momento in cui si cambia la composizione di una delle due camere, dell’elezione di una parte dei membri del Consiglio superiore della Magistratura. Ce ne sono altre, ma in questa sede voglio approfondirne due di queste. L’elezione del Presidente della Repubblica cambia: ci sono circa 1000 persone che eleggono il Presidente della Repubblica, la costituente ha previsto questa modalità per garantire un arbitro supremo della Costituzione che fosse il più condiviso possibile. Dunque oltre il 630 deputati, i 315 senatori vi partecipano anche 59 delegati regionali. Questo non accadrà più. La scelta è giustificata dal nuovo “ruolo” che il Senato avrà, quello di rappresentare gli enti locali. Inoltre, le maggioranze previste aumentano: per eleggere il Presidente in appena 3 votazioni si necessita il 66%, così è e così sarà, il testo non modifica questa cifra. Modifica però le cifre dalla quarta votazione in poi, ovvero le alza. Dal quarto a sesto scrutinio saranno necessari il 60% dei voti, il 10% in più rispetto ad ora; dal sesto in poi serviranno i voti dei 3/5 dei votanti rispetto invece alla maggioranza semplice prevista oggi. Anche questa modifica sembra ragionata in quanto diminuendo il numero dei votanti è necessario, per garantire una votazione così importante, una base democratica adeguata. Dunque, anche quì la “deriva autoritaria” non sembra vedere luce. Ricordo che ad eleggere il Presidente della Repubblica con il nuovo Senato saranno in tutto 630 deputati e 100 senatori. L’altro passo sul quale voglio spendere alcune parole, prima di addentrarci nel dibattito del nuovo senato, è la modifica agli strumenti di democrazia diretta: Le leggi di iniziativa popolare necessiteranno 150mila firme, ma se queste verranno raggiunte sarà obbligatorio non solo inserirle nel calendario della camera, ma anche la loro discussione e votazione. Dunque aumentano le firme, ma aumenta anche la responsabilità che da queste ne deriva. Ancora, i referendum abrogativi come abbiamo imparato necessitano di un quorum da superare, il 50% degli aventi diritto. Per essere indetti dai cittadini il quesito necessita 500mila firme. Le cose cambiano, vengono richieste 800mila firme per poter portare la richiesta dei cittadini alle urne, ma il quorum della votazione sarà il 50% delle ultime elezioni avvenute. In un periodo storico di bassa mobilitazione politica, partecipazione e fiducia nelle stesse istituzioni viene data la possibilità ai cittadini di contare di più nella pratica di influencer dell’agenda politica. Ovviamente, per fare questo viene alzato il numero minimo di persone che lo richiedano. Anche in questo caso la “deriva autoritaria” è inesistente, si incentiva i cittadini a partecipare con la sicurezza che il loro impegno, sebbene dovrà essere maggiore all’inizio, avrà evidenti conseguenze. Vengono anche previsti due nuovi tipi di referendum: il referendum propositivo, e il referendum di indirizzo, di questi si sà solo che la loro introduzione è legata al testo costituzionale. Come saranno regolati dovrà deciderlo la camera successivamente. Non è una promessa, è un articolo del testo.

Abolizione del bicameralismo paritario.

La discussione sul cuore della riforma è arrivata successivamente alle critiche, alla strumentalizzazione politica e spesso senza adeguate competenze e richiamando esempi che non stanno nè in cielo nè in terra. La cosiddetta “personalizzazione del referendum” da parte di Renzi non è altro che una reazione scioccante a ciò che dovrebbe tuttavia essere naturale quando si compete per il potere: chi perde, deve riconoscerlo. In Italia siamo bravissimi a non perdere. Tant’è che si dice che in politica, nel nostro sistema democratico, non dovrebbe esserci nemmeno un vincitore per appunto non far sì che vi sia un perdente. Io sono onestamente allibito a certe espressioni utilizzate, per non parlare dei richiami a certi principi di base della politica e della filosifia politica che non coincidono minimamente con chi li ha espressi. Ancora più allibito rimango quando si richiama alle strutture istituzionali (vedremo poi anche elettorali) dei nostri vicini e non sul buon funzionamento del loro sistema istituzionale e della loro politica in generale. Vorrei fare chiarezza su questo punto che è la vera base del mio pensero sull’argomento. Diffidate da chi inizia la frase dicendo “In Francia ci sono…” o “In Germani esiste…”. No. Non funziona così. In politica non si copia, per il semplice fatto che non si tratta solo di un sistema istituzionale, solo di una legge, solo di un metodo. La politica serve a rappresentare la società, in un determinato momento, attraverso il consenso politico guadagnato in una competizione elettorale che si tenga in uno stato di diritto e che garantisca il progresso della democrazia. La specificità di ogni singolo paese è unico. In Francia il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti da lui commessi. L’uomo con più potere del paese non può andare in galera, ma perchè ci sono dei determinati contrappesi, decisi in un determinato periodo storico, legittimati dalla cittadinanza, previsti dalla carta costituzionale, istituzionalizzati nel sistema. Non è mai “solo” un qualcosa. Dunque, a noi del Bundestad, del Senato francese, della Camera dei Lord, del Congresso americano non ce ne deve fregare ‘na mazza. Ci si deve occupare di ciò che in Italia possa funzionare meglio e pensate un po’ non sempre quello che funziona in un’altra parte funziona anche qua. Se sentite qualcuno dire “E ma in Inghilterra hanno…” spegnete la Tv, girate la pagina del giornale, cambiate sito, alzatevi dal dibattito.

Il bicameralismo è il miglior modo di prevedere il funzionamento di uno stato democratico basato sulla rappresentanza. Il bicameralismo paritario quello più inutile per farlo. Perchè avere due camere che fanno la stessa identica cosa? Voi direte “beh, però al loro interno ci sono rappresentanti eletti in maniera differente”. E quindi? Il loro mandato, la loro mission, è sempre la stessa. Anzi, prevedere che il Senato debba forzatamente rappresentare la maggioranza proporzionale delle regioni, o in generale della cittadinanza più da vicino è assurdo. Come si è potuto non realizzare che il rischio era avere due maggioranza in due camere che fanno la stessa cosa? E, al momento in cui ci si trova così, che si fa? Non solo fare una cosa due volte non ha senso, ma prevedere chi la fà debba “rappresentare” due maggioranze differenti è a dir poco schizzofrenico. Come dicevo prima, la Costituzione è un compromesso. Un compromesso raggiunto dopo una dittatura. Il primo obiettivo era permettere che quello specifico scenario non si presentasse più, dunque, doppia verifica sulle leggi. C’è un però. Ricordiamoci che chi era seduto nella costituente erano politici. E i politici si devono scontrare in una competizione leale per ottenere il potere. Il bicameralismo paritario è Il compromesso, il migliore di quel periodo, in quello specifico ambito, con quelle specifiche persone. Non sarà la prima volta che la politica italiana decide per il suo interesse, mettendo quello dei cittadini in secondo piano. Questo è e sarà evidente, senza dover tanto ricadere in discorsi populisti o complottisti.

Che il termine “paritario”, con tutto ciò che implica, debba finalmente sparire dal costrutto istituzionale italiano è una cosa che accomuna le parti politiche. Ma che assieme a questo debba sparire anche la parola “bicameralismo” io lo trovo errato. Il Senato non deve essere abolito, come qualcuno dice. Il Senato è una parte fondamentale del nostro sistema istituzionale. Va semplicemente modificato il suo funzionamento in modo da poter garantire un processo legislativo umano. La modifica più importante prevista nella riforma riguarda il fatto che il Senato non voterà più la fiduca al Governo, e avrà dunque compito di rappresentare le istituzioni locali. Non perderà la sua funzione legislativa, farà semplicemente quel compito che attraverso una legge elettorale che ha destabilizzato il sistema si pensava dovesse fare. Per poter parlare a tutti, e quindi anche agli elettori che poco si interessano della sostanza ma che vogliono azioni meno teoriche ma più dirette si è deciso di dare un impronta alla riforma a stampo “populista”. Ovvero, la scelta di eliminare i senatori “a vita” è stata quasi sempre giustificata in ordine di risparmio economico, così come la riduzione della stessa camera alta. La diminuzione dei tempi di discussione e modifica da parte del nuovo Senato è stata gisutificata dal fatto che più giorni si lavora, più costa ai cittadini. Insomma, molto del ragionamento che si poteva fare sulla specifica scelta politica di pensare un Senato così come potrebbe essere dal 4 dicembre in poi, è scivolato sull’ambito della spending review. I 95 senatori che verranno diciamo “scelti”, modalità saranno da definire una volta approvata la riforma, dalle regioni saranno composti da 21 sindaci, uno per regione a parte il Trentino-Alto Adige, e i restanti dai consiglieri regionali, eletti indirettamente dai cittadini al momento delle elezioni amministrative regione per regione. Dunque i senatori non saranno solo tali, ma anche sindaci o consiglieri regionali. E’ qui che le parti si dividono in maniera contrastante: da una parte ci si chiede come un sindaco o un consigliere regionale possa fare nello stesso momento anche il senatore; dall’altro lato la scelta è ancora una volta giustificata dal fatto che volendo garantire la rappresentanza degli enti locali in ambito nazionale, il miglior modo e il più diretto è sembrato proprio quello di fargli compiere un doppio-lavoro. Non dico doppio mandato perchè una volta scaduto quello locale, i senatori decadranno. Ne consegue che il Senato previsto nella riforma non avrà più di tanto stabilità ma sarà sempre costretto a modifiche di maggioranza. Questo non per forza è un male. Costringere una camera ad “adattarsi” ad un ambiente poco sicuro, in continuo cambiamento potrebbe far responsabilizzare i gruppi parlamentari e diminuire le scaramucce e i capricci interni; se in più aggiungiamo che i tempi stretti previsti per modifiche e richieste di revisione sulle leggi ordinarie vanno nella direzione di non perdere tempo, si sembrerebbe aver tramutato due possibili difetti in due concreti vantaggi. Non dimentichiamoci che il nuovo Senato però avrà meno lavori da svolgere. La necessità di “tagliare” i costi della politica sembra essere stata inserita in un modo…colorito all’interno di un sistema che tutto sommato potrebbe anche funzionare. Onestamente non so quanto un consigliere regionale o un sindaco sia in grado di fare quello ed anche il senatore “ridotto” (ripeto ancora una volta, i casi in cui il senato sarà chiamato ad avere la stessa quantità di lavoro rispetto a quella che ha adesso sono limitati); ma il mio primo problema non è di certo “la perdita del voto”. Se da un lato c’è chi si è giocato la carta dei costi della politica, dall’altro c’è chi si gioca quella dei diritti. Detta così la prima sembrerebbe rientrare nel mazzo della destra, la seconda della sinistra. Infatti sembra, ma non è. La critica maggiore dei No-voters viene fatta proprio su questo passaggio: noi vogliamo eleggere direttamente il Senato. Ora, bisogna essere onesti. Una delle leggi elettorali che permetteva la rappresentanza proporzionale delle regioni, e garantiva l’accesso ad una camera con funzioni legislative piene, era il Porcellum. Ma il porcellum è incostituzionale. Si potrebbe pensare ad una nuova legge elettorale per il Senato, che limiti il premio di maggioranza, garantisca una rappresentanza diretta tra locale e nazionale, che limiti il rischio di avere due maggioranze nel parlamento. Oppure si volta pagina, si dice no a tutto questo e la rappresentanza locale la si fa esercitare ai cittadini nel locale, così come sembrerebbe più ovvio. Eleggendo il sindaco, il consiglio regionale io cittadino, scelgo chi tra di loro voglio che mi rappresenti al Senato. Il tutto non è semplice perchè un elezione indiretta è molto più “corrompibile” di una diretta. Dato che qui sembra la fiera del garantismo, io preferisco fare il diverso e rammentare che c’è un evidente problema di legalità nell’elezione indiretta. Ma è superabile,d’altronde da quando in qua non si fa una cosa perchè è difficile? Non siamo mica nel M5S. Insomma, io sono d’accordo che si elimini “paritario” dalla dicitura del nostro bicameralismo, sono d’accordo che il Senato debba rappresentare gli enti locali (non solo le regioni) a livello nazionale, sono d’accordo che non debba votare la fiducia; ma sono indubbio che un sindaco riesca a far bene anche il senatore, sono incerto che il modo migliore di definire un’elezione indiretta di questa portata ed importanza sia “dopo vedremo”, nutro insomma forti dubbi su come sarà, se sarà, gestito il processo di definizione dell’elezione/i per eleggere i nostri futuri senatori/sindaci/consiglieri regionali. Mi preoccupa molto più questo della “deriva autoritaria ” di Italicum & riforma.

Il nuovo sistema elettorale

<<Il combinato legge elettorale Italicum e riforma costituzionale vanno nella direzione di una decisa presidenzializzazione del sistema, con poteri più forti per il Governo e soprattutto per il presidente del Consiglio a discapito di un parlamento zoppo che sarà nominato al 70%.>>

Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? Quante volte anche noi abbiamo usato la dicitura […]”Il combinato legge elettorale e riforma”[…]. Di nuovo, le basi.

Che la maggioranza abbia previsto che la modifica della riforma costituzionale dovesse andare assieme a quella (obbligatoria) della legge elettorale fa capire non che si vuole creare una dittatura, ma che la lungimiranza dell’operazione è tale che si è compreso che non si tratta solo di modificare il Senato, o solo di modificare l’elezione della camera. Prendere le due cose separatamente è un errore, la rappresentanza dei partiti avviene attraverso il sistema elettorale e sfocia nel sistema istituzionale. Chi vi dice che Italicum e riforma sono due cose separate ha torto. Va comunque sottilineato che il 4 dicembre si vota per la riforma, non per la legge elettorale, o per la legge di stabilità, o su Renzi, o su altre milioni di cose che si sono sentite dire. La domanda della scheda è semplice, la risposta deve attenersi a quello che ci viene chiesto. Uno sforzo di maturità in quanto cittadini forse dovremmo cominciare a farlo. Come detto in precedenza, nella mia tesi di laurea fresca fresca sui sistemi elettorali ho avuto modo di analizzare il testo elettorale, ho deciso dunque di prendere qualche pillola e aggiungerla qui sotto. Per chi volesse approfondire il mio punto di vista, sono disponibile a condividere il mio lavoro. Il tutto, ovviamente, nei limiti del buonsenso accademico e di quello legale.

Prima di tutto modifica il numero delle circoscrizioni (20) suddivise in 100 collegi plurinominali dove all’interno di ciascuno, potranno essere assegnati «un numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a nove». La lista, non la coalizione, che otterrà il 40% dei voti al primo turno, otterrà non più di 340 seggi; in caso nessuno arrivi al 40%, viene previsto un ballottaggio tra le due liste più votate. Per quanto riguarda i caratteri illegittimi della precedente legge, l’Italicum raddoppia la soglia per l’accesso al premio di maggioranza e modifica il soggetto: non più la coalizione ma la lista. La soglia di sbarramento viene abbassata al 3%. Il punto successivo, il voto di preferenza, sembra, ancora una volta, non essere del tutto chiaro: viene data possibilità all’elettore di esprimere due preferenze per candidati di sesso diverso, «tra quelli che non sono capolista». Questi, i capilista, sono bloccati (dunque nominati dalle segreterie di partito, come accadeva precedentemente) e possono candidarsi fino ad un massimo di 10 collegi. Naturalmente, «sono proclamati eletti dapprima i capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze». L’intenzione del legislatore è quella di trovare un equilibrio “possibile”: l’elevato consenso richiesto per accedere al premio di maggioranza è giustificato dalla possibilità quasi certa del ballottaggio, al primo turno l’elettore potrebbe benissimo votare per un partito diverso da quello che andrà a votare due settimane dopo; ancora, viene data più possibilità per i partiti minori di accedere alla camera abbassando, anche se solo di un punto percentuale, la soglia. Per quanto riguarda la preferenza, va di certo premiata l’idea di stabilire, finalmente, un eguaglianza sulla rappresentanza anche per quanto riguarda il genere, e tutto sommato, il potere dei partiti sembra, difficile dire ridursi, ma almeno non aumentare. La presenza del doppio turno rende di certo questo sistema “meno” proporzionale; dall’altro lato viene garantita, così sembra, una maggioranza adeguata a governare. Le critiche maggiori rimangono sulla scelta dei capilista bloccati. Proviamo a fare un esempio: immaginiamo che il partito A ottiene il 40% dei voti al primo turno, dunque gli spettano 340 seggi. La segreteria del partito A ha optato per candidare un capolista differente in ogni collegio, dunque si ritroverà con 100 “nominati”. Se avesse scelto in maniera diversa, decidendo di candidare ogni capolista in due collegi, se ne troverebbe 50 direttamente eletti. Gli altri 240 vengono dalle preferenze espresse dagli elettori. Il partito che vince dunque sarà composto da ben due terzi da deputati scelti dai cittadini, mentre solo, al massimo, un terzo da capilista. Per assurdo, la “deriva autoritaria” che viene attribuita a questa legge elettorale, sembra non interessare minimamente il partito di maggioranza, ma proprio quelli che non vincono: dovendo contendersi, tutti, 280 seggi viene da sé che molto difficilmente ci sarà spazio di ingresso ai candidati espressi tramite le preferenze. Sotto questo punto di vista, il sistema garantisce sì l’espressione della preferenza, ma non l’accesso per tutti quanti. Il punto fondamentale diventa dunque la scelta di attribuire ai partiti un capolista bloccato più che la possibilità di candidatura multipla. A questo, in parte, si sarebbe potuto ovviare prevedendo un secondo turno, anziché un ballottaggio, in questo caso si sarebbe dato prima di tutto una competizione partitica “extrabipolare” (che, tra l’altro sembrerebbe la più adeguata ora come ora) e lo stesso handicap sul discorso preferenze a tutti i partiti, anche a quello che ottiene più consensi. Tenendo poi conto che il miglior modo di garantire un rapporto diretto tra elettori e rappresentanti delle istituzioni è e rimane il collegio uninominale (magari preceduto dalla presenza di primarie di partito) si sarebbe dovuto andare verso la direzione di diminuire la grandezza delle circoscrizioni e quanto meno confermare la soglia di sbarramento per complicare la vita ai partiti minori che rimangono in possesso, di sicuro meno rispetto al passato, di poteri di ricatto.
Il sistema elettorale in Italia e in Francia. Caratteristiche ed effetti.
Riccardo Moschetti, A.A. 2015/2016.